Ultreya et suseya, adjuva nos Deus

Riflessioni di mezza estate

Una settimana or sono, seduto su uno scoglio a contemplare il saluto del sole calante (e l’ultimo giorno di vacanza…), riflettevo che è ormai alle spalle un secolo complesso, contraddittorio, violento e stimolante. Ma come è incominciato il terzo millennio? Non certo con una chiara visione di una rotta ma con una ricerca affannosa di rimanere almeno a galla.

La società occidentale vive da tempo al ritmo di una crisi globale che colpisce l’economia e la cultura, l’ambiente e l’educazione: ma se oggi ne percepiamo tutta la vastità e l’oppressione è perché siamo particolarmente sensibili ad una crisi economica che si prolunga nel tempo. Proprio perché valutiamo tutto attraverso le categorie dell’economia, abbiamo l’impressione di una crisi acuta e generalizzata. Da anni si parla della crisi dell’uomo e della famiglia, ma ciò non ha mai fatto presa sulla sensibilità collettiva.

I greci utilizzavano la parola krisis (soprattutto in ambito medico) per indicare una situazione estrema limitata nel tempo. Ma nella crisi è implicito il suo superamento. Alla fase acuta della malattia segue la guarigione o la morte. Inoltre, grazie alla crisi si esce dall’incertezza, si decide una strategia e s’individua una via d’uscita.

Oggi, invece, la crisi ci sembra permanente. E’ onnipresente, invasiva e continua. E si è incapaci di decidere una strategia d’uscita. A forza di parlarne, è venuto meno ogni esercizio critico sulle sue caratteristiche.

La sensazione che oggi proviamo è una metafora della condizione dell’uomo contemporaneo che rivela soprattutto la trasformazione della nostra relazione con il tempo e la nostra incapacità di pensare il futuro. Prima di questo momento storico, la crisi era una tappa nella realizzazione di un divenire caratterizzato dall’idea di progresso. Oggi, se la crisi è percepita come insuperabile è perché è venuta meno l’idea di futuro, purtroppo soprattutto nei giovani. La nostra visione dell’avvenire è incerta, non prefigurabile.

Il presente appare come dilatato all’infinito, invade tutto. Oltre al futuro, rischia di scomparire anche il passato, dato che sembra impossibile fare ricorso alla tradizione. Ma oltre ad essere dilatato all’infinito, il presente non ha più significato, sembra non dirci più nulla e soprattutto ci sembra immobile.

L’inquietudine della modernità fa da sfondo all’attuale situazione di crisi. L’uomo senza più le garanzie offerte dalle trascendenze del passato, cerca di costruirsi delle nuove prospettive, che però non hanno più nulla di definitivo e certo. Da qui la situazione d’incertezza che alimenta la sensazione di una minaccia incombente. L’inquietudine e l’incertezza naturalmente possono alimentare lo spirito critico, ma anche un sentimento di abbandono e d’impotenza. Come se né gli individui né le società avessero più le risorse per tentare di resistere al declino.

Dopo le prime grandi trasformazioni tecnologiche che hanno interessato il modo di vivere fisico dell’uomo, nella seconda metà del novecento è avvenuta una straordinaria rivoluzione nella sfera dell’informazione e della comunicazione. Una vera rivoluzione comparabile alle due passate rivoluzioni industriali.

Tanto che qualcuno si è anche posto anche la domanda se ha ancora senso per l’uomo contemporaneo, smaliziato e disilluso da oltre due millenni di indagini filosofiche, porsi alla ricerca della verità. Ha senso tale ricerca in un mondo che ormai si fonda sulla realtà virtuale?

Si comunica attraverso la rete, senza necessità di mettersi in gioco attraverso i filtri cognitivi, senza necessità di scambiare emozioni, senza necessità di un vero rapporto con l’altro. Si apprende attraverso l’informazione omologata dalla rete, che attraverso i suoi processi analogici filtra ciò che è più cliccato o – peggio – veicola ciò che più conviene. L’eccesso della “informazione” ci annebbia e non siamo più in grado di costruirci certezze (vedi la questione dei vaccini).

In campo economico, la cd. bolla economica che ha messo in ginocchio il mondo intero ed ha fatto emergere una deviazione rispetto ai principi liberistici che avevano ispirato l’inizio del novecento: il mercato non è più dominato dal libero scambio ma dalla finanza. Il potere delle imprese è pian piano passato nelle mani dei proprietari del capitale. Il capitale non trae più l’essenziale dei suoi profitti dallo scambio e dalla produzione di merci, ma dallo scambio e dalla ristrutturazione perpetua del capitale stesso. Spesso con processi meramente speculativi, processi agevolati dalla globalizzazione e dalla possibilità di trasferire i capitali da una parte all’altra del mondo in tempo reale.

In questo quadro oggi l’uomo del terzo millennio vive una situazione nuova e paradossale: è in perenne azione e collegamento virtuale con il prossimo, si crede dinamico ma attorno a se avverte una realtà stagnante. Dal desiderio della libertà l’uomo è passato alla libertà incondizionata del desiderio.

E vive in una perenne ansia. La formula che provoca uno stato di ansia è molto semplice: basta immaginarsi che in futuro si presenteranno innumerevoli problemi che noi non saremo capaci di risolvere. L’ansia è un curioso stato di inquietudine perché ci fa cominciare a soffrire nel presente per qualcosa di cui non abbiamo nemmeno la certezza che accadrà in futuro. Renè Descartes, verso la fine della sua vita, scrisse: “la mia vita è stata piena di disgrazie, molte delle quali non sono mai accadute”.

Le parole aprono cassetti emotivi straordinari e per il perverso gioco dei media noi oggi siamo bombardati da messaggi catastrofici, messaggi che raggiungono il risultato di aumentare l’attenzione e l’acquisto ma, nello stesso tempo, creano alterano le emozioni e gli stati d’animo, creano ansia, creano paura e spengono pian piano la speranza, la fiducia. Mentre invece il mondo è straordinario ed è fatto di gente straordinaria.

Cosa possiamo fare noi? Molto. Forse tutto può ripartire dalle piccole comunità. Dalle piccole aggregazioni. Dai piccoli Comuni. La settimana scorsa sul Corriere della Sera uno scrittore ha scritto che occorrono più comunità e meno tribù. Pecetto può e deve diventare sempre più una comunità ove i cittadini possano in armonia esprimere i loro talenti ed i loro sogni. Ricordiamoci che il battito delle ali di una farfalla può provocare un uragano…

Ora basta elucubrazioni e rimettiamoci al lavoro!

 

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1 commento

  1. maricla

    Le tue riflessioni accompagnano alla conclusione positiva e incoraggiante, fanno sperare dopo aver fatto riflettere.

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