di Paolo Buzzetti.

Da genitore rimango perplesso e, permettetemi, anche un po’ avvilito, nel venire a conoscenza di ricorrenti episodi di “bullismo” nella nostra scuola di Pecetto: vorrei condividere con voi il malessere che deriva dall’apprendere che numerosi alunni delle scuole medie, negli ultimi tempi, hanno iniziato a “migrare” verso altri Istituti limitrofi, come se, tentate inutilmente le “ultime carte”, genitori demoralizzati non avessero trovato migliore soluzione che eliminare il problema alla radice. Ma questa, credetemi, è una sconfitta per tutta la cittadinanza, alla quale una società che vuol dirsi “civile” non si dovrebbe rassegnare.

La preparazione degli insegnanti rimane eccellente, ma forse sarebbe necessaria quella “mano in più” da parte delle Istituzioni comunali (per ora scarsamente attivate), per affrontare situazioni che coinvolgono, oltre l’aspetto didattico (di competenza del Ministero), anche quello più propriamente educativo, con i riscontri emotivi tarati sulla psicologia delicata di un minore che si affaccia alle soglie dell’adolescenza.
Se poi alle problematiche “comportamentali”, si aggiungono i primi approcci con le sostanze stupefacenti spacciate sotto le famigerate “telecamere”, beh, allora il quadro si complica e le assenze istituzionali si allargano.

Purtroppo il mondo “dell’oratorio” che ha accompagnato, tempo fa, molti di noi attraverso le prime esperienze di confronto quasi-adulto con i nostri coetanei, ha perso molta della sua forza.. per mancanza di risorse, per mancanza di convinzione, per stanchezza degli attori.. ed il vuoto “sociale” che si viene a creare può solo essere colmato dal binomio COESO famiglia-scuola.

Dico “coeso” perché mi è capitato di assistere ad episodi in cui genitori “chioccia” difendevano ragazzini indifendibili, per evitare punizioni sacrosante proposte dai docenti. La famiglia ritengo che sia e debba rimanere il nucleo essenziale, quello che supporta nelle difficoltà e nei momenti difficili, ma non quello che in modo “miope” addolcisce comportamenti sbagliati, relegandoli al ruolo di “ragazzate”. E’ proprio lì, nel nucleo, dove i nostri figli hanno imparato a parlare e a camminare, che forse devono imparare anche ad essere donne e uomini di valore.

Vi invito, se condividete il mio approccio, a far leggere ai vostri figli (edulcorando qualche frase troppo “forte” per i bambini più piccoli), una lettera scritta da un professore, docente della ragazza di 12 anni di Pordenone che ha tentato il suicidio qualche giorno fa :

“Oggi una ragazza della mia città ha cercato di uccidersi. Ha preso e si è buttata dal secondo piano. No, non è morta. Ma la botta che ha preso ha rischiato di lederle la spina dorsale. Per poco non le succedeva qualcosa di forse peggiore della morte: la condanna a restare tutta la vita immobile e senza poter comunicare con gli altri normalmente. Adesso sarete contenti ha scritto. Parlava ai suoi compagni.

Allora io adesso vi dico una cosa. E sarò un po’ duro, vi avverto. Ma ho questa cosa dentro ed è difficile lasciarla lì.

Quando la finirete?

Quando finirete di mettervi in due, in tre, in cinque, in dieci contro uno?

Quando finirete di far finta che le parole non siano importanti, che siano “solo parole”, che non abbiano conseguenze, e poi di mettervi lì a scrivere quei messaggi – li ho letti, sì, i messaggi che siete capaci di scrivere – tutte le vostre “troia di merda”, i vostri “figlio di puttana”, i vostri “devi morire”.

Quando la finirete di dire “Ma sì, io scherzavo” dopo essere stati capaci di scrivere “non meriti di esistere”?

Quando la finirete di ridere, e di ridere così forte, quando passa la ragazza grassa, quando la finirete di indicare col dito il ragazzo “che ha il professore di sostegno”, quando la finirete di dividere il mondo in fighi e sfigati?

Che cosa deve ancora succedere, perché la finiate? Che cosa aspettate? Che tocchi al vostro compagno, alla vostra amica, a vostra sorella, a voi?

E poi voi. Voi genitori, sì. Voi che i vostri figli sono quelli capaci di scrivere certi messaggi. O quelli che ridono così forte, quando la finirete di chiudere un occhio?

Quando la finirete di dire “Ma sì, ragazzate”?

Quando la finirete di non avere idea di che diavolo ci fanno 8 ore al giorno i vostri figli con quel telefono?

Quando la finirete di non leggere neanche le note e le comunicazioni che scriviamo sul libretto personale?

Quando la finirete di venire da noi insegnanti una volta l’anno (se va bene)?

Quando inizierete a spiegare ai vostri figli che la diversità non è una malattia, o un fatto da deridere, quando inizierete a non essere voi i primi a farlo, perché da sempre non sono le parole ma gli esempi, gli insegnamenti migliori?

Perché quando una ragazzina di dodici anni prova a buttarsi di sotto, non è solo una ragazzina di dodici anni che lo sta facendo: siamo tutti noi. E se una ragazzina di quell’età decide di buttarsi, non lo sta facendo da sola: una piccola spinta arriva da tutti quelli che erano lì non hanno visto, non hanno fatto, non hanno detto.

E tutti noi, proprio tutti, siamo quelli che quando succedono cose come questa devono vedere, fare, dire. Anzi urlare. Una parola, una sola, che è: BASTA!!.

Educhiamo i nostri figli alla sensibilità ed al rispetto: saranno uomini e donne migliori

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