Pecetto Torinese può vantarsi di avere come direttore tecnico giovanile dell’Associazione Sportiva Pecetto Calcio una grande gloria del calcio di Serie A: Enrico Albrigi.

Nato il 5/1/1943, Albrigi è cresciuto nel vivaio del Toro, debuttando con la maglia della prima squadra in Coppa Italia il 1º marzo 1961. Con la squadra granata ha disputato, come attaccante ed ala destra, 10 partite in Coppa Italia, 2 nella Coppa dell’Amicizia e 3 nella Coppa delle Coppe. Nella Coppa delle Coppe del 1964 Albrigi segnò in Finlandia proprio il goal decisivo contro l’Haka. Nel 1966, sempre con la maglia granata, ha giocato contro gli USA nello stadio Azteca di Città del Messico. Al termine della sua carriera è passato quindi al Livorno (fino al 1970), terminando nell’Asti e nel Canelli.

Enrico, come hai iniziato?

Io lavoravo alla Aermacchi di Varese e nel frattempo giocavo a livello dilettantistico e facevo provini. Sono quindi entrato nel vivaio del Filadelfia e la mia storia calcistica è iniziata con la maglia granata.

Come è stato giocare nel Toro negli anni ‘60?

E’ stata un’esperienza unica! Si viveva un calcio passionale ove la squadra era la somma di grandi individualità. Ho avuto poi la fortuna di giocare con giocatori leggendari, come Giorgio Ferrini, Roberto Rosato, Angelo Cereser, Natalino Fossati, Gigi Meroni, Giambattista Moschino, Lido Vieri, Aldo Agroppi, ecc. Senza dimenticare che ho anche giocato una stagione (1961/62) con gli scozzesi Denis Law (poi nominato Pallone d’Oro nel 1964) e Joe Baker. Su Giorgio Ferrini ho scritto un libro (ndr: Giorgio Ferrini: il capitano di mille battaglie) ed ho raccolto una mole incredibile di fotografie, foto che vengono utilizzate in tante pubblicazioni dedicate al Toro. Tieni presente che, finito di giocare, per trent’anni ho fatto di mestiere il fotografo.

Enrico, come si giocava a calcio negli anni ’60 – ‘70?

Era tutto diverso. Vi era un fuoco dentro di noi e la commercializzazione non aveva ancora invaso tutto. Negli anni ‘60 la tribuna dello stadio era in legno. Quando i 34.000 spettatori facevano il tifo battendo i piedi, vibravano non solo gli spalti ma anche i cuori. Era un’emozione indescrivibile. Non avevamo poi tutto quello che ora hanno i giocatori di Serie A. Non parlo solo dei compensi. Avevamo una sola maglia, che non veniva cambiata. Quando pioveva la felpa si impregnava d’acqua ma noi non avevamo quella di riserva. Non avevamo sponsor. Quando prendevi il pallone di testa ti rimaneva il “timbro” delle cuciture sulla fronte. Gli allenamenti erano tremendi. Si faceva il ritiro a Bardonecchia e i preparatori ci facevano correre continuamente sino a Melezet e su per le cime, senza mai fermarci. Per provare a colpire bene la palla con il piede oggi, in allenamento, si utilizza un attrezzo che tiene la palla sollevata: allora uno di noi si sdraiava a terra e si poneva la palla sul suo sedere e si cercava di non sbagliare…

Oggi mi pare che il gioco sia più violento, ti pare?

E’ il contrario. Prima si giocava “a uomo”: ora si gioca “a zona”. Allora il confronto era più rude ed individuale. Oggi il gioco è più strategico. Ricordo che il nostro allenatore ci diceva: “voi dovete rincorrere e seguire l’avversario anche quando va in bagno a fare la pipì!”. I contrasti erano durissimi. Vorrei vedere anche uno come Messi alle prese con difensori di quegli anni, come ad esempio Rosato… Rosato era soprannominato Faccia d’angelo, per via dei tratti gentili del suo viso, ma in campo deciso e molto rude. Allora vi erano grandi individualità. Oggi grandi squadre.

Quindi allora era premiata l’individualità mentre oggi è la squadra che deve rispondere perfettamente a strategie studiate a tavolino?

Esatto. Mi sembra che si giochi a scacchi: ogni giocatore in campo ha la sua posizione, tutti vanno avanti e tutti tornano indietro e chi avanza con il pallone sulla fascia non è preso dalla mezzala che, invece, aspetta che l’avversario avanzi senza contrastarlo fino all’area o fino in fondo finché arriva nel pezzettino di parto di competenza del suo compagno. Uno guarda il suo pezzettino e l’altro a fianco il suo e così le squadre vanno su e tornano giù, prendono palla fanno l’azione e su dieci volte che si va su cinque il pallone torna al portiere per fare il possesso palla. Se si osserva, guardando le partite in televisione, in occasione di tutte le palle gol quando c’è un cross da sinistra a destra o viceversa c’è sempre un uomo libero della squadra avversaria. O il difensore guarda solo il pallone e bada con un pezzetto dell’occhio dove si trova l’avversario oppure chi deve rientrare per andare a marcare l’uomo libero non ce la fa a tornare indietro. Io giocavo da ala destra e avevo il terzino avversario che mi marcava, eccome se si marcava. Quando arrivavo sul pallone per stopparlo o mi veniva incontro oppure se riuscivo a stopparlo avevo sempre il mio avversario a un passo, quando mi dava tanto, e, quindi, avevo difficoltà a stoppare il pallone. Adesso, invece, quando si stoppa l’avversario è a sette-otto metri. Se oggi un lancio viene perso non è stato un errore di chi ha lanciato ma del giocatore che avrebbe dovuto ricevere, secondo gli schemi studiati a tavolino.

Tu che sei direttore sportivo di squadre giovanili, come sono i ragazzi del 2000 che iniziano a giocare a calcio?

Come tutti i ragazzi della loro epoca: sono straordinari ma hanno poca propensione al sacrificio ed all’attesa. Vogliono tutto subito. I giovani di oggi pensano di sapere tutto e non hanno né il rispetto, né la voglia e neppure l’intensità per giocare a pallone. Sanno fare l’orologio (ndr: consiste nell’effettuare con il piede un giro di trecentosessanta gradi, tenendo all’interno del cerchio descritto dalla gamba il pallone, riprendendo quest’ultimo con il piede stesso e continuando a palleggiare), come i grandi campioni, ma non sanno calciare il pallone. I ragazzi sanno fare cose che lasciano a bocca aperta, però, non sanno stoppare, passare o colpire di testa. Ci sono dei ragazzi di diciotto anni che non sanno alzare la gamba sinistra in contemporanea con il braccio destro. Mancano i fondamentali. Sono poi distratti dalla tecnologia che la società moderna offre loro, anche se giovanissimi. Quasi tutti i ragazzini sono a dotati di cellulare, perennemente in mano, onde io li requisisco all’inizio degli allenamenti. Pensavo di ricevere contestazioni di ogni genere, anche dei genitori, ma non è capitato nulla di ciò. Un genitore mi ha anche scherzosamente invitato a casa sua poiché lui non riesce a regolamentare il telefonino ai figli.

Cos’è il calcio per Enrico Albrigi?

La vita. Ho giocato per anni e collezionato 268 presenze in prima squadra. Ho giocato con grandi giocatori e mi sono confrontato con giocatori stranieri nelle Coppe delle Coppe. Quando, per età, ho dovuto smettere, ho fatto il fotografo… sportivo. Da anni alleno le squadre giovanili di Pecetto. Ho due figli: Cristiano e Simone, che allenano anch’essi giovani calciatori. Simone è anche procuratore. Ho 74 anni e tutti i giorni continuo a stare in pantaloncini corti su un campo da calcio. Cosa vuoi di più? Non vado solo più allo stadio e guardo le partite in televisione perché il mio Toro è morto anni fa e da allora quello che è per me rimasto sono i tifosi.

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